Potete immaginare, creare e costruire il luogo più meraviglioso della terra ma occorreranno sempre le persone perché il sogno diventi realtà.  Walt Disney

Trovo, e mi attirerò più nemici tra gli uomini di quanto non abbia già fatto, che la filosofia di Nietzsche non sia poi così eccelsa. Ben disse Benedetto Croce quando vestì il profeta del nichilismo da poeta più che da filosofo. La sua filosofia appare soprattutto, se non solo, distruttiva, e se è pur vero che ogni altare si edifica sulle rovine dell’altro, come egli ebbe a dire in chiusura della seconda dissertazione in Genealogia della morale, non possiamo limitarci a rovinare. Geneaologia della morale appunto, proprio quest’opera, letta, mi ha piantato in bocca un amaro sapore di resa dinanzi all’ottusità del pensiero che Dio rinnega, fortunatamente Dio è potente a salvare. Ricordo quando studiai L’Origine del Cristianesimo di Engles, ebbi la stessa sensazione. Quale? Scoraggiamento! Non dinanzi al potere di quella o questa critica, il potere era ben poco, proprio quel poco mi scoraggiò, poiché il far del poco il fondamento del proprio credo e del proprio odio è faccenda disastrosa. Secondo l’amico di Marx, direi il suo portafoglio, il cristianesimo non è altro che una rivoluzione sociale mal riuscita. Quello slancio rivoluzionario non poté realizzarsi in terra perché eterogenea era la massa di scontenti, dunque, fu postulato un regno ultraterreno dove poveri e nobili scalzati potessero realizzare il ritorno alla felicità.
La domanda nasce spontanea: Come dar credito a questo? Engels avanzò una critica, che provò a spacciare per storica, all’origine del cristianesimo così come viene presentata secondo l’ipotesi di fede. Non ho il tempo di esporla in ogni punto ma sostanzialmente la racchiudo in un pasticcio di errori, molti già tali all’epoca della stesura, altri resi tali dalle successive e soprattutto recenti scoperte in campo storico ed archeologico. L’idea di un Cristianesimo nato duecento anni dopo in sette giudaiche, la totale adesione all’ipotesi mitologica di Gesù, la triste e mal riuscita esegesi dell’apocalisse, gli errori di calcolo che condussero erroneamente a Nerone quale anticristo. Un minestrone di abbagli difficili da digerire, soprattutto quando si vuol dire di se che di pregiudizi si è spogli. Questo è il poco che mi preoccupò e mi preoccupa perché, restando su Engles e finendo anche, ci si accorge che l’indagine non fu la via per l’odio ma l’odio la via per l’indagine. Il materialismo storico, termine coniato appunto da lui, l’idea dunque che le produzioni spirituali dell’uomo siano in ultima istanza da riferirsi alla condizione sociale ed economica, fu la base di partenza non la stazione d’arrivo. In quella stazione, quella della partenza, quella dell’odio, troviamo appunto anche Nietzsche uno dei filosofi meno avvezzi ad indossare i panni dell’educazione verbale al cospetto di Gesù. In Genealogia della morale notiamo lo stesso cammino, dall’odio all’indagine, dal pregiudizio alla riflessione. Nel desiderio continuamente scritto e pubblicato di liberare l’uomo da quelle credenze che non gli permettono di gridare sì alla vita, il filosofo, dopo aver criticato i genealogisti inglesi rei di non avere spirito storico, s’impegna in lavori di scavo al fine di raggiungere le vere fondamenta della morale, specialmente quella giudaico-cristiana. L’opera che non possiamo, ci mancherebbe, sviscerare, presenta diverse riflessione poi da tanti digerite e rielaborate. Voglio essere conciso! Per Nietzsche, la morale, quella Cristiana, perché è di quella che c’interessa parlare, non è che il prodotto di un risentimento plebeo sviluppatosi per l’ingegno della casta sacerdotale in sistema di regole e virtù capaci a sovvertire l’etica precedente, quella dei potenti che era appunto un meraviglioso, dice l’autore, canto alla vita. Pertanto dietro a leggi quali: ama il tuo prossimo, perdona il tuo nemico, porgi l’altra guancia e a valori quali: l’umiltà, la compassione, la semplicità; si nasconde, ridendo, direi sogghignando, un profondo risentimento, in poche parole il contrario stesso della morale in gioco ed è il gioco fantastico del capovolgimento, il prodotto che è l’antitesi del produttore, la radice che si fa beffe del frutto! Ora la prima cosa che mi viene in mente è una ferma distanza, sulla faccia un calmo sorriso. Le due colonne della morale giudaico-cristiana, a voler mettere da parte Gesù, altrimenti qualcuno dirà come si diceva da bambini, quando si giocava e si era il capitano e si perdeva la conta e l’altro sceglieva il più forte: Non è giusto! Le due colonne dicevo Mosè e Paolo, tutto mi sembrano tranne plebei squattrinati pieni di odio verso i potenti dominatori. Non era il primo un principe d’Egitto? Non era il secondo l’uomo cresciuto ai piedi di Gamaliele, il fariseo dei farisei, il sommo dottore della legge quanto alla legge impeccabile? Non due plebei pieni di risentimento quindi, piuttosto due potenti peni di vita. E se di Paolo, con un colpo di reni, il critico potrebbe dire: Si ma era un giudeo già raggirato dalla potente morale del risentimento, non altrettanto può esser detto dell’uomo Mosè, principe del grande e sapiente popolo Egizio, padrone degli schiavi suoi fratelli secondo la razza, possessore di ricchezze inestimabili. Cosa li condusse fuori dal castello dorato? Fu forse il parlare di un sacerdozio guidato dall’invidia? Fu forse il desiderio di dominio mal posto perché posto in un corpo debole? No di certo, fu un incontro, furono due incontri, gli incontri per eccellenza, l’incontro della vita, quello con il Logos creatore. A ben guardare dunque l’etica giudaico-cristiana, questa non nasce dal risentimento ma da quell’incontro speciale con la Parola che tutto ha formato e tutto regge. Non è dunque l’odio ben indirizzato ma la grazia divina sovranamente elargita la culla da cui si generò la morale per eccellenza. Ma volendo continuare nel chiederci se davvero sia lecito concordare con Nietzsche si scorge una contraddizione di fondo nel suo ragionamento. Se i potenti furono soggiogati dai deboli secondo l’ingegno dei sacerdoti e ridotti ad identificare il loro esercizio con l’esercizio del male, secondo quale principio sono detti forti? Non è il forte chi soggioga e il debole chi è soggiogato? Non c’è in questo ragionare il desiderio di un’etichetta affibbiata senza che i fatti concordino? Ahimè chi ci libererà da questa ignoranza? Voglio incalzare.

Nella prima dissertazione, ancora, perché è in quel territorio che ci stiamo per adesso muovendo, Nietzsche ci tiene a precisare che una forza non può non esplicarsi come tale, stesso discorso vale per la debolezza. Se dunque esiste questo ‘io’ inteso come soggetto, è soltanto perché i deboli, i plebei, avevano bisogno del doppio fare, ovvero di un entità dietro all’esplicarsi della forza e parimenti della debolezza. A quale scopo? Condannare il forte reo di non controllare la propria volontà di violenza ed esaltare il debole meritevole di preferire l’umiliazione all’esercizio della brutalità. In altre parole, non vogliamo perdere nessuno, semmai siete ancora con noi, la soggettività non è che una falsa entità necessaria a chiamare in gioco il concetto di libertà o scelta, così da frenare il forte e celebrare il debole. Infatti il plebeo dirà: Tu che usi la violenza sei responsabile, tu, soggetto che si trova dietro all’esercizio della violenza, perché potresti farne a meno. Io, io soggetto debole ho scelto di essere debole, ed in questo mio scegliere, la mia debolezza acquisisce vigore, si tramuta in forza, poiché è scelta forte di una coscienza forte e non esplicazione di una debolezza in sé stessa debole. Ora, ancor qui vediamo e ci chiediamo: Si è dunque la forza esplicata come sottomissione ad un artifizio della debolezza che a sua volta si è manifestata come debolezza ingegnosa? Se così fosse, e non vedo altre vie percorribili in seno al pensiero manifesto in Nietzsche, ci troveremmo ancora a chiederci su quali basi la debolezza ingegnosa sia debolezza e la forza ingannata forza! E continuando: Se una forza, che sia potente o debole, non può che darsi nella suo esser potente o debole, secondo quale crudele e ironico scherzo del destino la debolezza si è esplicata come ingegno e la forza come ingenuità? C’è a dircela tutta una patetica mancanza di coerenza nella formulazione di questa ipotesi. Il risentimento, se di risentimento si tratta, è stato al più risentimento del forte e non del debole, in tal guisa la legge che è saltata fuori non è stata che la formulazione in termini morali della stessa volontà di potenza che si è imposta ad un’etica di passaggio troppo fiacca per restare. D’altronde se così non fosse, potremmo ridurre la storia della morale ad una stupida commedia. Essa infatti narrerebbe la rivoluzione dei deboli, la guerra dei deboli, la conquista dei deboli, il trionfo dei deboli e infine il regno millenario dei deboli… continuando pregiudiziosamente a chiamarli deboli.

Nella seconda dissertazione, pittorescamente Nietzsche costruisce la sua risposta al perché del senso di colpa. Come giustificarlo? Se c’è un senso senza senso, facile è abbracciare la tesi cristiana, pertanto diamo un senso al senso di colpa, altrimenti restiamo con un cerino in mano dinanzi all’esserci da sempre della cattiva coscienza in seno alle produzioni umane. Nietzsche parte dalla coscienza e poi da questa alla cattiva coscienza e poi alla religione della cattiva coscienza, ma andiamo con ordine, non vogliamo dare troppo per scontato. Nei primi passaggi della seconda dissertazione Nietzsche afferma che l’uomo è stato allevato a fare promesse per combattere la sua attitudine all’oblio, alla dimenticanza. Promesse, fare promesse, costituzione che si dà nei termini di un grido ‘Io voglio’ da non confondere con il semplice desiderio ma piuttosto con ‘l’io voglio raggiungere quell’obbiettivo’, dunque esplicazione anche verbale di uno scopo che si vuol toccare con mano. Ora, l’io vogliochiamerebbe in causa l’io posso e l’io posso, il poter fare quel che si vuole fare, chiamerebbe in causa la misurabilità ovvero l’aver misurato la propria forza e la resistenza esterna in rapporto all’obbiettivo prefissato. L’uomo allevato a fare promesse non è dunque altro che l’uomo che ha coscienza di sé, ovvero coscienza del proprio obbiettivo e del proprio potere: è l’uomo sovrano, libero, forte, che si armonizza alla volontà di potenza. Questo uomo, per Nietzsche, è un frutto che tarda ad arrivare, perché è arrivato piuttosto l’uomo dalla cattiva coscienza, l’uomo soffocato dal senso di colpa. Ma come si sarebbe formato questo maledetto senso di colpa? Nietzsche pone come base del discorso, il rapporto, per lui quasi primordiale, tra debitore e creditore. Il debitore in caso di mancato pagamento concedeva al creditore il proprio corpo, non come schiavo ma come carne da macello. Dunque si aveva un risarcimento non in termini economici ma emotivi, poiché l’estinguersi del passivo si annidava nella tortura e/o nella morte del debitore per mano del creditore che poteva così sfogare la sua violenza. La violenza poi non era vissuta come scandalo, aggiunge Nietzsche, ma addirittura in relazione alla festa, come sublime momento di gioia, lì dove il patibolo figurava come torta di compleanno per un…compleanno. Momento importante, direi fondamentale, quello della condivisione della violenza, poiché nell’individuo creditore la comunità poteva identificarsi per dar sfogo alla sua sete di brutalità e fintanto questo sfogo c’era non vi era senso di colpa, almeno non secondo le dinamiche formative di Nietzsche. Ma cosa è successo? È successo che è nata la comunità stato e l’uomo, il singolo individuo ha ceduto alla comunità il diritto ad esercitare quella violenza per l’ottenimento della quiete interna alla collettività. E se agli inizi la comunità esercitava violenza per fissare l’obbedienza (niente si fissa più di ciò che non cessa di dolorare secondo Nietzsche) al raccoglimento dei frutti di tale obbedienze ben corrispose l’addolcirsi della pena fino alla tragica grazia, quella misericordia che ha eliminato il sopruso. Ed eccoci alla colpa! Perduto lo sfogo esterno l’uomo non ha potuto fare altro che veicolare verso l’interno quel desiderio di violenza e alla ricerca di un colpevole l’ha trovato in se stesso poiché ‘per il piacere di far del male, l’uomo si fa del male’. Dunque il senso di colpa non sarebbe altro che il prodotto di una sete di violenza che non potendo soddisfarsi all’esterno sul colpevole altro, si volge all’interno creando in se il colpevole che cerca. Come poi questo senso di colpa si sia irretito nella religione è secondo Nietzsche da ricercare ancora in seno al binomio creditore/debitore ma questa volta in relazione agli antenati i quali sono sempre vissuti come creditori a cui donare feste e ricordi. Gli antenati poi si sono gradualmente trasformati in altro. Antenati, super antenati, divini antenati, dei… e da lì all’unico Dio creditore il salto è stato breve, secondo Nietzsche, così ci siamo trovati in seno al creditore per eccellenza, il Dio Cristiano che non solo ha da riscuotere da tutti ma che per amore del moroso povero e ignudo si fa egli stesso debitore.

La terza dissertazione criticherebbe invece gli ideali ascetici, ovvero quei esercizi che miranti un bene supremo svaluterebbero il mondo, la natura ed il corpo. Nella costatazione che questi fanno presa su tutti, artisti e filosofi, Nietzsche si chiede cosa rappresentino gli ideali ascetici per le tre figure per eccellenza: artista, filosofo e prete. Se per il primo significano niente, l’artista cerca il benefattore di turno al quale connettersi, e per il filosofo non sono che una via di fuga per eliminare quegli ostacoli sulla strada verso l’alta spiritualità; significano molto per il sacerdote asceta, l’unico, degno, autentico, rappresentante degli ideali ascetici. Ma la terza dissertazione, a non voler parlare troppo, ha nella parte conclusiva la sua sezione più interessante. Nietzsche si chiede quale sia la soluzione agli ideali ascetici e finisce per criticare anche l’idealismo e le scienze che altro non sarebbero che ideali raffinati. Perché? Perché questi condividerebbero quella volontà di Verità, la verità con la V maiuscola, che è anche propria della religione. A mò d’esempio: Lo storico di turno, non deve forse farsi obiettivo per giudicare un evento? Ed è l’obbiettività possibile in seno al pensiero di Nietzsche che afferma ‘niente fatti solo interpretazioni’? Così a non volere nulla si finisce per desiderare il nulla, come l’Iddio inventato delle grandi religioni monoteiste.

Sicuramente farà gran presa sui più il pensiero di Nietzsche, che per la cronaca finì pazzo da legare, ciò che mi duole sottolineare è la percezione di una mancante comprensione del cristianesimo autentico. Nietzsche parla spesso del cristianesimo in termini che un evangelico, giusto per affibbiare etichette chiarificanti, stenterebbe a comprendere. Pare spesso più la descrizione della vita di quei monaci estremisti direi, che chiudendosi in monasteri circondati dal nulla si danno alle più acute torture del sé. Il cristianesimo di Cristo era un ‘si alla vita’. Non un abbandono alle passioni ma una felice gestione di esse per dischiudere il gioco ed è proprio il dischiudere che sfugge a Nietzsche perché per il filosofo tedesco la fede in Cristo è sistema non relazione! L’etica è etica del codice non etica dal rapporto, e in questo scarto che a Nietzsche sfugge la portata di quei valori che non sono mortificanti ma vitali. Il prendere ogni giorno la sua croce e seguirmi non è demolizione delle forze vitali ma dischiusine di esse se e solo se, giustamente, si comprende che siamo nel contesto di una relazione inter-personale. Umiltà, generosità, altruismo, autocontrollo, dolcezza, mansuetudine sono la chiave per una perfetta relazione. L’annullamento del sé che non è mero annullamento ma perdita per far posto all’altro è quanto dischiude il piacere di un rapporto. Ma ecco per donarsi alla conclusione:

Non è il mio, ma il tuo
Non mio, ma tuo
Non io, ma te
Sincero nelle fatiche mi dono per darti riposo
Sincero mi tormento per donarti quiete
Cos’è la mia anima se non che un viadotto tra te e la gioia?
Guanti per le tue mani son le mie e calzari per i tuoi piedi sono i miei
Della mia pelle una tua coperta dei miei occhi il veder tuo
Sei tu il fuoco di cui ardo e la pioggia di cui mi bagno. Il deserto che percorro senza sete e la sete che non mi spaventa poiché ci sono se tu ci sei, poiché sono se tu sei
Non è il mio, ma il tuo
Non mio ma tuo
Non io, ma te.

La scrissi ad Eléna, mia figlia, la mia prima figlia. Ed è essa, la poesia, il canto del cuore che si mortifica per l’altro, per l’altra. Qual è la gioia più autentica? È lei, quella dolce croce che porto, che porta il suo nome: Eléna. Nel vivere per lei, nel mortificarmi per lei, nell’essere per lei che io realizzo la più grande delle gioie poiché nella relazione è il perdersi per l’altro che dischiude la vita, non viceversa. Certo Nietzsche potrebbe dire: Caro Stefano è sempre il prodotto di un atto egoistico quel tuo amore, è sempre un volerla per te! Beh permettetemi di dire che non prendo lezioni sull’esser genitore da chi genitore non lo è mai stato ne voluto mai essere. Il cristianesimo non è portatore di valori mortificanti ma di valori che inquadrati nell’ambito di una relazione, la relazione con Dio appunto, la dischiudono, e con essa la gioia, quella vera, l’unica vera gioia poiché come ben disse Elbert Hubbard ‘Si può sopportare il dolore da soli, ma ci vogliono due persone per provare gioia’.

di Stefano Bonavolta

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