Il biologo Holden è sceso 2.000 metri sott’acqua. “Ho studiato gli abissi e i cieli dell’universo: la scienza non può spiegare tutto”

“Io credo nel cristianesimo come credo che il Sole è sorto. Non solo perché lo vedo, ma perché attraverso di esso vedo tutto il resto” (C. S. Lewis)

Immanuel Kant s’è sbagliato, o quantomeno è stato troppo superficiale, ammesso che tale aggettivo possa essere usato in modo così sfacciato quando si parla dell’autore della “Critica della ragion pura” e di altri scritti che hanno segnato la storia del pensiero moderno. Il filosofo di Konigsberg che sulla lapide tombale s’era fatto scrivere “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, pensava che tutto fosse grosso modo riducibile a quella vaga idea di nebulosa primordiale, di certo sublime e misteriosa, ma scientificamente spiegabile. Altro che Dio, che rimane qualcosa di estraneo, di altro, di inspiegabile e semplice risposta umana a ciò che l’empirismo non poteva dimostrare. James Holden, microbiologo dell’Università del Massachusetts, ribalta la prospettiva e dimostra che proprio la ricerca scientifica, costante e indefessa, porta a credere che Dio c’è e non è una necessaria invenzione dell’uomo famelico di spiegazioni plausibili su ciò che lo circonda. Lui, racconta al Foglio, l’ha scoperto scendendo negli abissi degli oceani, fino a 2.200 metri di profondità a bordo del sottomarino Alvin, il glorioso sommergibile della United States Navy varato nel 1964 . E’ lì, nell’oscurità dei fondali marini, tra una spedizione e l’altra oceanografica per studiare le sorgenti idrotermali – cioè le fratture nella superficie di un pianeta da cui fuoriesce acqua geotermicamente riscaldata – guardando pietre e sabbia e banchi di granchi, che ha deciso che quanto vedeva là sotto era un miracolo che andava ben oltre astruse combinazioni chimiche e formule buone per manuali universitari: “Il fatto è che la scienza non mi ha dato spiegazioni soddisfacenti riguardo il senso e lo scopo della vita, né mi ha detto nulla sulle ragioni per apprezzare la bellezza o la carità”, che poi altro non è che l’amore, come rivela il vocabolo latino, caritas. “E poi, se devo dirla tutta – prosegue – sono rimasto con la sensazione di dovere in qualche modo comportarmi in modo non vero; in una maniera che non mi consentiva di sperimentare gioia e soddisfazione e quindi di giustificare la mia esistenza”.

Il professor Holden oggi tiene conferenze (rigorosamente a braccio) davanti agli studenti di un’America sempre meno credente e dubbiosa ovunque, dalle scuole al giuramento presidenziale ogni quattro anni il 20 gennio, spiegando loro perché la scienza e la religione possono coesistere senza troppi problemi o esagerati turbamenti psicologici. Confessa con altrettanta tranquillità che la fede in lui non è innata. Certo, “sono cresciuto in una famiglia formalmente cristiana, ma lasciai perdere la chiesa e le sue storie quando entrai al college. Sono stato fortunato a imparare e sperimentare cose davvero incredibili nel mio percorso verso il dottorato, ma non era abbastanza. Non mi sentivo soddisfatto: i risultati raggiunti non mi appagavano, mancava qualcosa”. Così, “terminato il dottorato, iniziai a cercare una filosofia di vita alternativa”. Usa la parole filosofia, e la ripete più volte, dando l’idea di non saper bene a quale approdo l’avrebbe condotto la navigazione incerta a bordo di una barca sballottata qua e là dai marosi. Un po’ come san Paolo scaraventato a Malta dall’euroaquilone, cioè dal grecale, come riportano gli Atti degli Apostoli. Una strada dunque tortuosa e logorante, non priva di asperità e di momenti di pausa, fa capire il microbiologo: “Ho esplorato i fondamenti di molte tradizioni religiose, ma alla fine ho capito che quella cristiana fosse la fede che aveva qualcosa in più da dirmi, soprattutto l’idea di grazia, di amore, di sacrificio e il fatto che quanto facevo era ispirato da una divinità incarnata, che io credo essere Gesù di Nazaret. Non è stato facile. Ho avuto molte discussioni con Dio lungo questa strada, e molte barriere sono dovute cadere prima che io, alla fine, trovassi la mia fede”.

Insomma, almeno su questo punto concorda con Kant, e cioè che è troppo facile chiudere la questione alla maniera di Anselmo d’Aosta, per il quale la prova dell’esistenza dell’essere perfettissimo era data dal semplice fatto che l’uomo a Dio ci pensava. “Da quando però ho trovato la mia via – prosegue Holden – ho avuto più pace e gioia nella mia vita, imparando a guardare le necessità degli altri anziché volgere lo sguardo solo su me stesso, sulle mie priorità. E’ chiaro che qualcuno senza fede può essere una persona migliore rispetto a me, ma ritengo che la fede aiuti a essere individui più positivi rispetto a quello che saremmo senza credere in qualcosa”.

La barriera suprema da abbattere rimane quella della prova dell’esistenza di Dio, il discrimine tra chi crede e chi non crede, tra chi si affida alla fede e chi basa tutto solo su ciò che è sperimentabile. Non c’è spazio per le cinque prove teorizzate da san Tommaso né per quel che la chiesa ha detto o tentato di dire nei secoli. Contano numeri, cifre, ragionamenti che fondano ogni cosa sul nesso tra causa ed effetto. Holden accenna a un sorriso, dicendo la sua sulla questione pur serissima: “Io non credo sia possibile dimostrare o smentire empiricamente o scientificamente l’esistenza di Dio. Però, credere in Dio può essere ragionevole e razionale. Come persona di fede, vedo segni di Dio ovunque attorno a me. Quando io faccio una scoperta scientifica o imparo qualcosa di nuovo riguardante la natura, dico sempre ‘Oh, allora è così che l’ha fatto Dio’. Una rarità nel mondo post moderno che ha elevato, pur senza ammetterlo – forse per imbarazzo – il razionalismo sfrenato a divinità, solo perché visibile e spiegabile. Ancor più difficile per un uomo di scienza che passa le giornate in laboratorio, chino su un microscopio a osservare quel che c’è su anonimi vetrini. “In realtà, la mia esperienza religiosa convive benissimo con la mia routine quotidiana. Il motivo? Semplice, penso che Dio voglia che io faccia quel che faccio abitualmente. Il mio lavoro, poi, mi aiuta ad apprezzare ancor di più Dio e ciò che lui ha fatto nella storia e nella mia vita d’ogni giorno”. Holden riconosce però d’essere una sorta di eccezione: “Ho colleghi che crederanno sempre solo in ciò che è empirico e quindi verificabile. E’ il loro modo di conoscere la verità. Io però trovo questa filosofia limitante, dal momento che alcune evidenze che abbiamo nella vita, come l’amore, la bellezza, l’altruismo e il sacrificio non possono essere verificati empiricamente. Eppure, nessuno di noi dubita della loro esistenza”. Forse, ha detto lo scorso febbraio parlando al Commonwealth Honors College di Amherst, basterebbe pensare la fede come qualcosa che va oltre il tempo, lo spazio, la materia, l’energia. Due domini separati e quindi perfettamente compatibili. Dopotutto, già Chesterton lo diceva: “Il modo migliore per capire se un cappotto sta bene addosso a un uomo non è prendere le misure dell’uno e dell’altro, ma farglielo provare”. La fede, insomma, può mostrare “un grande quadro d’insieme della realtà”, capace di comprendere in sé ogni cosa.

Spiegare tutto questo ai giovani è più difficile, ma in qualche modo affascinante. L’uditorio è presente e partecipa, assicura il nostro interlocutore. Magari qualcuno è dubbioso e qualche sopracciglio s’alza mentre questo microbiologo del liberal Massachusetts parla di Dio e Paradiso, tra una citazione di Dante e descrizioni di acque calde oceaniche. “La loro reazione è mista. Alcuni studenti credenti sono sollevati nell’ascoltare un professore a sua volta credente. Sono contenti di vedere che uno può essere uomo di fede e al contempo uno scienziato di successo. Altri sono invece scossi, convinti al cento per cento che scienza e fede siano ambiti totalmente separati. Altri ancora mantengono le loro riserve perché atei convinti o per certe opinioni politiche personali. La maggior parte degli studenti, comunque, accetta la mia fede e non sono troppo dispiaciuti di lavorare con me anche se hanno una prospettiva diversa sulle cose”.

Chi studia qui, oggi, è per lo più tollerante circa il pensiero e il credo altrui, sottolinea Holden: “Specialmente sono tolleranti verso quel che credono i loro coetanei. La chiave è mostrare rispetto per gli altri, anche se tu la pensi diversamente, e imbastire un dialogo civile su cosa noi crediamo in modo che tutti abbiano la stessa possibilità di esprimere il proprio punto di vista”. E quando qualche studente affascinato dalle teorie di Stephen Hawking o di altri illustri vati del pensiero scientifico contemporaneo o fedele alla nebulosa primordiale di kantiana memoria, domanda come si può credere a Dio e nel Big Bang nello stesso tempo e nello stesso modo? “Credo che il Big Bang, come fenomeno naturale, è il modo in cui Dio ha creato l’universo. Non vedo la necessità di mettere in contraddizione qualcosa come il Big Bang e l’esistenza di Dio”. Chiariamo: “La fede e la scienza non possono essere d’accordo su tutto, però ci sono ambiti in cui è necessario che i due aspetti lavorino assieme. Penso alla povertà, alle decisioni sul fine vita, al ruolo della tecnologia nella vita, alla definizione di ciò che significa essere ‘umani’ alla luce dell’intelligenza artificiale”. Strana sintonia quella che viene a crearsi con Karl Popper, il quale decenni fa spiegava che alla fine la religione fornisce le risposte a ciò che non può trovare risposta sul piano scientifico. Sono le celebri “questioni ultime”, tra cui rientra proprio il senso della vita o al posto dell’uomo nel grande proscenio universale.

Il piano è quello su cui si situa anche lo scienziato Alister McGrath, docente di Scienza e religione a Oxford, che in nome di Isaac Newton contesta l’ateismo di tanti suoi pari, come il neodarwinista e neoateista Richard Dawkins. Pure McGrath da ragazzo si definiva ateo, ne faceva quasi un vanto, convinto che solo la tavola periodica degli elementi avrebbe fornito le risposte alle domande più profonde. Poi, anche lui ha capito che “la realtà è troppo complicata per essere compresa attraverso una visione intellettuale di tipo tubolare”. Serviva qualcosa di più, “una narrazione più ricca, più profonda rispetto a quella offerta dalla sola scienza. Anzi, rispetto a quella che qualunque cosa da sola possa offrire”, ha scritto ne “La grande domanda”, pubblicato recentemente in Italia da Bollati Boringhieri (261 pp., 23 euro) con la traduzione di Sabrina Placidi. Racconta che a crescere in lui fu la consapevolezza che “rispetto alle alternative di ispirazione ateista, la fede cristiana offriva spiegazioni più convincenti del mondo che vedevo intorno a me e di ciò che vivevo nella mia interiorità”. E poi, “per apprezzare a pieno il mondo in tutta la sua complessità e per agire in esso in maniera corretta e piena di senso bisogna osservarlo attraverso più di una finestra”, osserva McGrath, che in tasca ha una laurea in Chimica, una in Teologia e un non disprezzabile dottorato in Biofisica molecolare. Per carità, precisa: “Non c’è niente di sbagliato nel cogliere solo una parte della verità. Basta essere consapevoli che si tratta di una visione incompleta”.

I problemi, infatti, “nascono quando ci convinciamo che la realtà sia limitata a ciò che un’unica tradizione di indagine può rivelare, quando ci rifiutiamo di ascoltare altre voci oltre alla nostra”. E’ chiaro poi che – per tornare a Chesterton – il cappotto della fede non cade sempre alla perfezione, e questo perchè, osserva McGrath, “nessuna visione del mondo è in grado di contenere la totalità dell’esperienza umana del mondo”. Da cristiano, aggiunge lo scienziato di Oxford, “trovo che l’esistenza del dolore e della sofferenza non riesca ad adattarsi in ogni piega al cappotto della fede” e “come la maggior parte degli individui, diffido dalle teorie troppo lineari. Tuttavia – aggiunge – sono convinto che Chesterton abbia ragione quando sostiene che questo cappotto calza meglio di altri cappotti. Meglio dell’ateismo, per esempio”.

Da IL FOGLIO di Matteo Matzuzzi | 17 Aprile 2016 ore 06:18